Viaggiare sì ma con una visione del mondo

Viaggiare sì ma col desiderio di tornare a casa, dove ci sono le speranze che non abbandoniamo (se ne abbiamo), viaggiare per tornare sempre.

Visualizzazioni: 120

Facebook
Twitter
WhatsApp
LinkedIn

Non viaggiare, insomma, solo per evadere ed essere sempre altrove e senza radici: il viaggio concepito da uno “stanziale”.

Va molto di moda un certo tipo di “globetrotterismo”. Personalmente, io che amo immergermi nelle mie solitudini motociclistiche ed “erranti”, non ho mai flirtato con alcune tendenze modaiole molto in voga negli anni Settanta e che fanno “figo” anche oggi. In sostanza, non mi sento né figlio dei fiori né nomade. Non ho mai avuto l’idea del viaggio come evasione da me. Distacco sì ma non fuga. Certamente, questione di punti di vista ma non vivo il viaggio come l’apoteosi biblica dell’esodo e traversata del Mar Rosso. Punto.

Per me il viaggio è scoperta, certamente, confronto con culture altre ma senza piaggeria per l’esotico in qualunque forma. Nel bene o nel male, sono io e porto me stesso ovunque, fermo e forte della mia (magari pessima) identità. In pratica, non cerco l’accettazione dal mondo nella cancellazione del mio mondo. Soprattutto il viaggio non è velocità e talvolta nemmeno movimento. Anzi, in alcune situazioni è più fermarsi che altro.

Per me il viaggio non è scordare se stessi, non è fuga da me ma incontro con me e con gli altri. Senza nomadismo. Più che altro mi sposto come un albero: mantenendo ben piantate le mie radici e la chioma dei miei ricordi. Aggiungendo l’esperienza del viaggio, cercando il contatto con l’intima dimensione di ciò che sono. Senza ammiccamenti resilienti e new age. Meglio farsi resistenti e rivoluzionari che resilienti e addomesticati come piace tanto al patriziato dominante e cosmopolita che, con la scusa della resilienza, ci abitua a tutto sopportare. C’è, poi, una dimensione del viaggio che si chiama viaggio statico, come furono viaggiatori statici De Maistre e Salgari. Il viaggio statico è tra le esperienze più significative con cui mi intrattengo tutti i giorni. Ad esempio quando scrivo.

Leggiamo quanto scrive in un suo articolo Marcello Veneziani, pensatore che stimo e di cui ho molti libri, sottolineati più volte con avida volontà di percorrerli come orizzonti infiniti: “Accade anche in terra, per strada, di scoprire che l’essenza del viaggio è l’immobilità. Mentre correte in autostrada, superate e siete superati da altri corpi viaggianti, dalla sfuggente identità; ad un tratto siete costretti a rallentare e poi a fermarvi, e restare bloccati per ore, in una di quelle code vacanziere ora frequenti, fino a passare dalle luci del giorno a quella della sera. Un paesaggio di oggetti e soggetti si rianima, riprende cuore e sembianze.

Sagome di vita lambite in velocità diventano esistenze vere, schiudono i loro abitacoli, scendono dalla loro volatilità e prendono corpo. Nel Viaggio Immobile si rivedono gli uomini, affiorano cenni di convivialità prima negati dalla velocità, segni umani di disappunto e di sofferenza; si ritrovano affetti e bisogni. In quei momenti ti ripassa davanti la vita, velocemente, e ti sorpassa accennando un saluto; ti scorrono le cose che hai lasciato marcire nella scatola nera del tuo cervello. Mentre stai seduto nell’abitacolo o su un guard-rail, sfrecciano i grandi e piccoli eventi che hanno riempito e vuotato la tua vita, e tu cerchi inutilmente di inseguirli o di fermarli allo sguardo. Avevi fretta di arrivare, temi che ormai sia troppo tardi e ti struggi dall’ansia di non essere là; poi lentamente cadono le cataratte dell’apprensione, i pensieri ancheggiano acquistando una calma andatura e magari pensi che qualcosa o qualcuno abbia voluto sottrarti all’incontro, salvandoti. O forse per temprarti nella prigione di un’autostrada, incatenato a una fila di auto che ti costringe a riflettere, a confrontarti con altre impensate occasioni di vita.

Il viaggio che mi fece più sognare è quello che immaginai osservando una pittura sulla parete di fronte al mio letto: su una banchina pulsante di vita un bambino vestito alla marinara, con la mano alla madre, saluta una nave che salpa o che approda, non so, figurando la memoria di un luogo eccezionale, di Indie misteriose, offerta alla dolcezza domestica, quasi materna, di un porticciolo festoso. Il tranquillo molo di una domenica borghese e lo stupore esotico dell’avventura, un intreccio di prossimità e lontananza. Quel viaggio che non feci mi ha dato più emozioni di ogni altro realmente compiuto. Hanno ragione Salgari e Xavier de Maistre, viaggiatori statici.

Ad uno sguardo bambino l’incanto del viaggio è anche un semplice finestrino che muta paesaggi, e ancora di più lo sguardo al mondo che lasciamo alle spalle dal lunotto di un’auto, dove la sorpresa del nuovo si unisce all’addio del paesaggio trascorso, che smoriva alla vista. Perfino un cruscotto di legno pieno di lucciole, come apparivano allo stupore infantile le spie luminose che brillavano la sera in una mitica topolino, accendeva la magia del viaggiare. O la pioggia che scroscia sulla lamiera e tambureggia sulla cappotta, e noi riparati a vedere il mondo che annega, a goderci lo spettacolo dell’universo che strepita e piange, seduti al sicuro nell’occhio del ciclone. O l’euforia ragazza di una notte di primavera passata all’addiaccio in attesa di un pullman per la gita scolastica; e poi il ritrovo, la partenza gioiosa, le azzurre luci discrete del pullman di notte, gli sguardi in penombra, gli approcci d’amore e il desiderio di non scendere mai da quel pullman e di non vedere mai spuntare l’alba del disincanto. Di queste immobilità è fatto il viaggiare. Viaggiare è un’illusione”.

Ecco, il viaggio immobile è lo sguardo che si posa su ogni cosa. Viaggiare lentamente è ritrovare questa autentica libertà. Tendo ad essere un viaggiatore statico come Salgari e De Maistre che un hippy, con la frenesia dell’esotico e di quell’errare che fa tendenza. Della mia (sacrosanta) inquietudine faccio una tessitura di stelle e camminate sotto il cielo della quotidianità o al tramonto. Lentezza sì ma senza sbraco.

In questo senso, mi ricorrono di nuovo in supporto un paio di libri di Marcello Veneziani che sono Anima e Corpo e Dispera bene. Volumi che segnano il passo su certe questioni moderne su cui c’è troppa vaghezza emotiva.

In Anima e Corpo, Veneziani scrive: “Alla fine, ridotti all’essenziale, non siamo che anima e corpo. Il corpo è diventato la nostra ossessione vitale, sessuale e sanitaria. E l’anima è il nostro rifugio leggiadro nella vaghezza, testimonial di dediche e canzoni, ombra emotiva, ottimo titolo per CD, libri e terapie. Il corpo viene alla luce, l’anima viene dalla luce. L’anima è il nostro cielo, il corpo è la nostra terra”

E ancora: “L’anima è la cripta di tutto quel che è la nostra vita, il punto focale dove trova coscienza, memoria e sensibilità l’intero racconto in cui siamo immersi e che chiamiamo vita“. O anche: “Quel punto estremo e non deperibile, quel nucleo essenziale, centro e rifugio di ciò che veramente sei, dimora originaria dove elabori pensieri ed emozioni, preghiere e speranze, chiamiamo anima. Le speranze possono essere tutte illusorie, ma illusoria non è la loro sede”. Nulla di vago, dunque, né sentimentale. Come la concezione di certo viaggiare che sa troppo di illusione, di ricerca all’esterno quando biosogna guardare all’interno.

Occorre dunque  liberarsi da sé stessi, dal selfie continuo, e riconquistare il principio di responsabilità, farsi “bastare la vita”. Senza inventarsene altre. In Dispera bene Veneziani propone “un quadrifarmaco per affrontare il tempo che non ci piace, curare il pessimismo, ripararsi dal potere e finire in bellezza. Un libretto d’istruzioni per smontare e rimontare la vita, accettarla ma non subirla. Cosa mettere in salvo, prima che faccia notte, sapendo che il mondo non inizia e non finisce con noi”.

Nei miei viaggi letterari, sempre molto stanziali o camminati, ho scoperto la giornalista e scrittrice Erika Eramo di cui vi riporto passi importanti del suo saggio Il viaggio come inutile fuga dall’Io: “Dietro tutte le ragioni che spingono le persone a partire ce n’è una in particolare che è forse la più forte ed efficace. Mi associo nuovamente alle parole di Veneziani, per il quale chi è in continuo viaggio tenta solo ‘di sfuggire alla morte e ai suoi annunci, come la vecchiaia e la malattia. Allora ti muovi in continuazione come un bersaglio mobile, per non farti colpire dai dardi avvelenati della sorte. Prova a prendermi se ci riesci, morte; e si comincia a correre come fanciulli. Si diventa bambini per non invecchiare’. Il viaggio quindi è un divertimento, ovvero un di-vertere, spostare lo sguardo altrove, eludendo, almeno in apparenza, l’ombra della morte che tutto sovrasta. Viaggiare è vivere precariamente, accettare che il tempo fugge ed al contempo non voler osservare però le cose dal crinale della morte. ‘Mutano i cieli sotto i quali ti trovi, ma non la tua situazione interiore poiché sono con te le cose da cui cerchi di fuggire’. Tecum sunt quae fugis, tutte le cose nessuna esclusa. Tutte, anche la morte”.

Ma viaggiare con una visione del mondo può rappresentare il paradigma della felicità: “La felicità come il viaggio, come la festa, e la fiaba, e il sogno, e il divino, si manifesta nella discontinuità. La vita ha bisogno di continuità per svolgersi, ma è la discontinuità a darle un senso. La gente ama tanto viaggiare perchè nel flusso costante degli avvenimenti ha bisogno della variabile che getti una luce diversa sul proprio vissuto. L’impulso a viaggiare non perderà il proprio splendore nei tempi, per quel desiderio mai pago di un’unità profonda col genere umano, con la cultura universale, per quell’attrazione fatale verso tutto ciò che corre via, che cambia repentinamente”.

Scrive Seneca nelle Lettere a Lucilio:  “Ciascuno è perennemente seguito, anzi perseguitato, da un odiosissimo compagno di viaggio: il suo stesso io, di cui non può liberarsi. Dobbiamo persuaderci di una cosa: che il nostro malessere non dipende dai luoghi in cui ci troviamo, ma da noi. Siamo incapaci di sopportare qualsiasi cosa se non per un tempo brevissimo: insofferenti della fatica, ma anche del piacere, di noi stessi, di tutto”.

Il fuggitivo più simbolico della modernità secondo Eramo è stato senza dubbio alcuno Paul Gauguin, “la cui coscienza “al culmine del suo talento”, come disse Mallarmé, “lo manda in esilio per ritemprarlo, lo allontana per ravvicinarlo a se stesso”. Continua Eramo: “Rissoso e ribelle s’imbarca ben presto in cerca di nuovi stimoli: Il suo anelito al paradiso del buon selvaggio non è tanto un rifiuto dell’Europa borghese ed utilitarista, quanto il desiderio di idealizzare se stesso, di dare sfogo ad una certa visione del mondo innocente e incontaminata, un tentativo di non cadere nella disperazione nichilista. Per questo trova soddisfazione nelle sue continue fughe in Panama, in Bretagna, nella Martinica o nei Mari del Sud, che lo riportano dalle tenebre alla luce, al cromatismo perduto della sua infanzia, alla leggerezza e libertà di comportamento. Gauguin in una lettera spedita da Tahiti a Strindberg afferma: “Se la nostra vita è malata anche la nostra arte deve esserlo e possiamo ridarle la salute soltanto cominciando di nuovo, come bambini o come selvaggi… Sono fuggito da tutto quello che è convenzionale, artificiale, abitudinario… La vostra civiltà è la vostra malattia; la mia barbarie è la vostra guarigione”. Quella naturalezza e stravaganza trovata in terre lontane lo porterà però inesorabilmente a far i conti con i propri demoni. “L’inutilità del viaggio in quanto fuga si scopre quando si evidenzia che viaggiamo insieme a noi stessi, ossia con l’essere da cui intendevamo fuggire”.

Il viaggio, dunque, è nutrimento dell’anima e terapia. Purchè non si risolva in arido “divertissement”, lasciando a casa “l’essere da cui volevamo fuggire”. Viaggiare sì ma col desiderio di tornare a casa, dove ci sono le speranze che non abbandoniamo (se ne abbiamo), viaggiare per tornare sempre. Forse è quella l’essenza del nomadismo più autentico. Come una volta facevano i vecchi pionieri. Alla scoperta del nuovo mondo col desiderio di rimanerci dentro e di non evadere sempre. Un patteggiamento con l’anima. Altrimenti, senza una visione del mondo, il rischio c’è: cercare sempre e non trovare mai.

Facebook
Twitter
WhatsApp
LinkedIn

POTREBBERO INTERESSARTI

MUNIMENTUM

“Le corse in moto e il fastidio della modernità, il gusto della solitudine e il perdersi nella massa, l’ansia d’assoluto e il minuto mantenimento del presente, uomo del suo tempo eppure nato fuori tempo, asceta ed esteta”.